Sabato 14 gennaio presso Circolo ARCI Montale , via Martiri della Libertà 54.

Brani per sintetizzatore, voce, sembianze
Di Sauro Sardi Valentino.
Uno dei più interessanti libretti di sala che abbia mai sfogliato era più insolito di ciò che non ti aspetti. Dopo una breve introduzione sulla trama dell’opera, dedicava oltre venti pagine alle macchine per le scene, il posizionamento dei microfoni, il tipo di nastro usato dal magnetofono per la riproduzione di brevi apparenze orchestrali, lo schema dei diffusori era disegnato a matita. Un capolavoro, una delle ultime meraviglie che ho visto, erano gli anni di Prometeo a Venezia. Il mio vecchio banco di registrazione è altrettanto insolito, è avaro di pratiche convenzionali, racconta esperienze di suoni, colori, parole, riaffiora l’esperimento ma tutto cambia. La pagina Web ora è diventata il piano delle mie performance, il palco. Accendo il quadro, sì, la composizione deve trasmettere anche l’idea del gesto, la manualità di chi esegue il brano e quella dello stregone che afferra il serpente, le parole devono essere storia di carne, ossa e rumore, tratte dall’esistente, come il contrabbassista che aveva perso un braccio sulle strisce pedonali. Si deve udire l’immaginario fracasso di un treno che non passerà mai. Se non ci sorride “La barista” dietro la macchina da caffè, io ho sbagliato tutto e voi avete sbagliato Bar. Vivere l’ascolto, altrimenti non serve a niente, non sentiremo mai le voci, i suoni dentro la scatola degli spettri come usciranno più avanti nel dialogo tra Jackson Pollock e una bottiglia di Whisky. I testi e tutto il resto sono la mia goccia nel becco, non ho altro da buttare sulle fiamme di questo mondo. Il mio teatro è aperto, le sedie mettetele voi.
Programma di sala
Remoto empirico acusmatico
Riproduci: Mi chiamo Jackson.
L’uomo del “Dripping” affronta la sua irosa natura.
Riproduci Pollock (2) Gli occhi del serpente.
Un vecchio stregone Navajo salverà Jackson dal morso di un serpente. Il coltello taglierà la luna sulla tela.
Riproduci Il contrabbasso.
Era matto, quando faceva scorrere le sue dita sul manico si vedevano le fiamme sulle corde.
Riproduci La barista.
Una storia finita nel cassetto dei fiori secchi.
Sintesi, argomenti di musica e scrittura.
Un suono si propaga come una frase che emoziona o lascia indifferenti. Dipende da una serie di combinazioni e dobbiamo fare sintesi: un suono proietta sempre la sua immagine.
Uno di questi giorni riprenderò la storia di un frammento che ho sentito a malapena in mezzo al traffico, debole ma vivo e distinto in mezzo alle ferraglie che stordivano i davanzali aggrappati ai muri della città. Un suono che sembrava una parola in scatola mentre da una finestra uscivano le note di una tromba dal timbro economico ma visceralmente urbano, aria e catrame.
Forse l’idea di una nuova immagine dell’ascolto darebbe luogo a percorsi e architetture troppo utopiche anche per una città del domani. Comunque, l’utopia è da sempre il primo mattone.
Rivoluzionario è un faro che illumina la scena mentre cade il trombino al flauto traverso, il suono è argento, il colore è quello della luna.
Quali parole, quale musica?
Quando si va in cerca di qualcosa che ci manca, fosse anche una smorfia sonora, una frase che si sta formando nella nostra memoria, niente è più inutile di un suono che non sorprende ma mostra i limiti che lo rendono simile a ciò che abbiamo già musicato e detto in mille lingue diverse.
Suonare il fracasso della vita.
La strada, la pressa che si abbatte e trancia col suo gemito ferroso, la città che si sveglia e riaccende le sue macchine da caffè. Musica e umanità, saremo esperienze del nostro tempo, forse utili, modesti inventori di qualcosa o esagerati artefici di un bel niente.
Personaggi:
Edo (Ulisse)
Carlotta (Nausica)
Il cane (Argo)
Schema audio :
La partenza
la tempesta
“voga!”
le sirene
tornare a Itaca.
Edo è Ulisse, il suo arco è il tornio, il suo mare è tra i più economici della Riviera Romagnola, Carlotta è l’infelice Nausica, tutto andava bene così.
Argo è un bastardo intelligente, conosce il suo mito e sa che gli potrebbe schiantare il cuore se corresse incontro al suo padrone.
TORNARE A ITACA FU TUTTO UN NAVIGARE.
(va bene anche così)
Di Sauro Sardi
Eccola, appollaiata sui piedi che sporgono sul bordo della vasca da bagno appare Itaca. Edo è stanco, ha remato e remato come poteva, attaccato a quei fili dal colore diverso, quei tubicini a spirale percorsi da un liquido talvolta opaco, altre volte più vivo. Un gabbiano etra dalla finestra e lo guarda, è stanco anche lui, , non ha trovato pesce in quell’albergo di Amsterdam dove hanno appena richiuso le finestre, ormai è volata dal terzo piano la tromba di Chet Baker. Edo non era mai stato Ulisse ma ogni giorno tornava a casa dopo essersi lasciato alle spalle il canto lugubre dell’unica sirena della sua vita, quella della fabbrica. Lui era l’uomo ai remi, era nato rematore , ogni giorno partiva e ogni sera tornava alla sua Itaca al terzo piano. Già, anche lui al terzo piano, senza ascensore, un frigorifero a rate morbide, un cane malaticcio ma che si faceva amare. L’aveva chiamato Argo. Andava bene così, poi all’improvviso qualcosa si spezza e tutto diventa difficile, i suoni che vengono dal mare stridono e passano da una finestra all’altra come un treno che raccatta il ferro che trova, il flauto sbava come una vipera soffiante. La città è un mercato di suoni per chi è di bocca buona e si accontenta dei saldi a ogni cambio di stagione. Forse, Edo avrebbe continuato a remare anche attaccato ai fili delle meduse, voleva tornare almeno per finta alla sua Itaca, una carezza al cane, un bacio al giradischi e via, rincorso dallo sguardo opaco di quel dolente gabbiano che ogni giorno spalanca la finestra e in lontananza appare, Itaca, i suoi giornali da leggere al mattino, i davanzali sotto alle finestre come sempre.
Tornare indietro, ripercorrere il tratto di strada che porta a quella maledetta variante oltre i vetri appannati mentre l’unico suono che svetta sopra a quello della pioggia è l’ansimare uggioso del tergicristallo. Mai vista una curva a forma di virus. Eppure affrontare quel tratto a strada bagnata non era una questione di anticorpi, mascherine che non si trovano, tamponi mordi e fuggi. La radio si spenge all’improvviso, poi più niente, solo il biancore di qualcosa che potrebbe anche essere un gabbiano, un lenzuolo appeso alla finestra. Certe volte Edo vorrebbe toccarlo ma tutti quei fili si muovono e il gabbiano strilla, sbatte la finestra e si china su di lui, forse agita le ali, gli gira intorno. Tutto cambia, il soffitto è quello dove una luce rimane accesa fino a che lo scatto del solito interruttore la disintegra. altro che scene di stelle polari, orse minori e maggiori, fuochi nel cielo per naviganti che urlano ai venti rabbiosi dentro alle bufere. Sì, avrebbe continuato a remare per chissà quanto altro tempo dentro a quella che a lui sembrava la sua vasca da bagno, poi una notte i rumori delle meduse gli scesero fino in fondo al cuore, dalla finestra entrarono i primi corvi del mattino, mai visti uccellacci così brutti, silenziosi e neri come i resti di una storia triste nel finale, eppure, tutto andava bene, andava bene così, l’ultima rata del frigorifero era vicina, Argo si accontentava degli avanzi e anche senza le scatolette contro l’alopecia gli ricresceva il pelo sulle chiazze, bene o male saliva e scendeva le scale anche da solo, quando arrivava in fondo non ci credeva neanche lui e si voltava a guardare tutti quei gradini appesi al muro. Carlotta voleva andarsene, era stufa di fare la parte di Nausica, la fidanzata senza speranza, ma erano anni che lo diceva e non lo faceva mai.
“Uno di questi giorni prendo il treno e non mi vedrai mai più”. Lo diceva, andava bene anche così.
Edo è appena sbarcato sulla luna, il mare asciutto è roba da esperienze per pochi insoliti viaggiatori che partono e tornano dentro e fuori da una storia che certe volte è vera, più vera della nave di Ulisse, la sua ciurma e le scogliere di cartone dove ora cantano e scodinzolano le migliori sirene dell’arte varia in quell’andare e tornare dove per sempre appare, dalla finestra, Itaca.
Anche se non c’è sempre una casa o un’isola che ti aspetta, per tutti c’è un finale, può essere triste, allegro , travolgente. C’è sempre un luogo dove le foglie cadono sui binari di un treno che va via ma tutto può succedere; il macchinista ha già letto da qualche parte quella storia, deve fare qualcosa, ferma il treno e la ragazza che piangeva dal finestrino scende, corre a braccia spalancate verso Edo, appoggiato al muro della stazione. La vede, lascia cadere a terra le stampelle e la stringe, la prognosi è sciolta da un pezzo e guarirà in due settimane. E il cane? Già, merita un finale anche se non è di bella presenza, ha il muso di un lupo e la coda misera, da cinghiale, il resto è quasi tigrato. Per quanti giorni Edo era rimasto in ospedale, tanti lui ne aveva passati accucciato sullo zerbino davanti alla porta del suo padrone. Al terzo piano non ci saliva mai nessuno. Non mangiava? Va bene anche così, nelle storie dove i cani non hanno un ruolo di primo piano possono mangiare anche una volta al mese, non ci fa caso nessuno. Intanto la porta in fondo alle scale si è già aperta, ogni ingresso ha il suo odore, ogni porta il suo rumore di alluminio anodizzato, Argo non si muove, se corresse giù per le scale gli schianterebbe il cuore, sa riconoscere i passi di Edo tra mille paia di scarpe. Ulisse torna alla sua dimora, il viaggio è finito, il finale, forse, è rimediato ma va bene anche così.
Il mio primo sintetizzatore vocale si chiamava “My Voice”. Un supporto indispensabile per leggere il testo sullo schermo. Gli ausili che le ultime tecnologie mettono a disposizione come screen reader, ormai fanno parte delle nuove dinamiche comunicative. La sintesi vocale è un performante accessorio del nostro tempo. per l’artista può diventare materia, forma espressiva che si collega principalmente alle nuove frontiere della musica e della scrittura creativa.
Fantasmi in fonderia 2: Jackson Pollock
Binario 21
Una Galassia è composta da circa mille miliardi di stelle. Nell’Universo ci sono oltre cento miliardi di galassie, stella più, stella meno. Tra queste, la via Lattea è quell’ammasso di nebbie che potrebbe ricordare un particolare del Padule di Fucecchio visto da Magritte, oppure l’ora del Tè nella Baia di Ancorage. La nostra casa nello spazio è dentro una soluzione di vapore denso e bianco come il latte. E noi sappiamo bene che fu per via di quello spruzzo di latte negato, quel dispetto di Era nei confronti del piccolo Eracle, figlio illegittimo di Alcmena e Zeus. Il pargolo era il frutto di una furbata del Dio dell’Olimpo a danno dell’ignaro Anfitrione, marito di Alcmena e dunque, non solo reduce guerriero ma ariete che merita tutta la nostra solidarietà. Però, che gente.
Certe volte appaiono nel cielo delle brevi strisce luminescenti, funi, che sembrano attaccate al soffitto di un Dio che sta al piano di sopra, Un Dio più vecchio dello spazio cosmico e dei flussi di materia che spingono l’Universo oltre la teoria del presente, oltre l’andare e venire relativo. Per quanti volessero attaccarsi a quelle rapide corde che arrivano fino al suolo, sarà solo una questione di traiettoria e riflessi pronti, di tempo sereno e asciutto, di frammenti stellari resistenti all’attrito che li consuma via, via, che scendono. Attaccarsi alle funi del cielo è come trovare un lavoro, un barcone sicuro, un luogo dove le ragioni valgono più dei quattrini. La prossima notte di San Lorenzo date un’occhiata al cielo anche per chi non può, per chi ha viaggiato il mare di notte e di giorno resiste appeso a quella bava che ciondola dal palato della volta celeste. La notte di San Lorenzo non fu per tutti un bagliore di fuochi artificiali.
Dopo i campi di sterminio e la bomba di Hiroshima ci fu chi non capì niente sulla dottrina dell’amore universale e sul Cristianesimo, fino a rimettere in dubbio il mare asciutto della luna e l’esistenza di un Dio misericordioso quanto distratto. Dopo Aylan Kurdi, il bambino Siriano fotografato “senza vita a faccia in giù tra la schiuma delle onde”, l’Europa mette in dubbio la sua esistenza e scopre la comunitaria e feroce dottrina dell’amore proprio, come il latte negato di Era, detta anche Giunone, la Dea dall’ enormi mammelle che preferì farsi scoppiare il petto prima di allattare un bambino che non era suo.
Ma forse siamo più figli di Ponzio Pilato che della distrazione di un Dio misericordioso, siamo tanti. Una stella riflette lo splendore della sua vita fino al bagliore accecante della sua morte, i frammenti arrivano fino a noi come funi del cielo o lacrime di Dio ancora accese fino a spengersi sulla spiaggia di Bodrum. Dove i bambini dormono a faccia in giù tra la schiuma delle onde.
TUTTI CAPIMMO A STENTO
Di Sauro Sardi
Certo, può essere pericoloso parafrasare e rivisitare il senso di una delle più depressive ballate di De André “La ballata
degli impiccati” tratta dall’album “Tutti morimmo a stento”. (1968)
I cultori dell’ultimo De André diranno che il pezzo è lento e datato, ma quello era il tempo dei poeti armati di parole che a risentirle ora, o ti affettano in due o ti danno lo spunto per una riflessione che, si capisca o no, si può anche scrivere come segue.
Nel tratto di strada dove la grande arteria del vapore rosso mostra le sue vene capillari ormai vuote, se guardiamo bene, tra smarriti e dispersi i globuli di quei volti appesi di fronte e di profilo ci sono ancora tutti. Stipati dentro una sacca di plasma dello stesso colore di sempre, un materiale che molti vorrebbero relegare come reperto, oppure sciogliere annualmente come sangue accagliato da sollevare al cielo mentre per via del solito microfono che funziona poco e male si sentono appena percettibili i nomi che da Gramsci a Peppino Impastato ora diventano anche vittime della retorica commemorativa. Personaggi che se potessero tornare in mezzo a noi si aprirebbero un varco a forza di calci nel culo mentre svolazzano le nostre narrazioni sui loro giorni di lotta e di coraggio.
In tanti fummo educati a pensare che perdere da vivi valesse la pena almeno per vincere da morti, è stato un credere sopra ogni altra cosa e chi credette di più perse la vita. Per un’idea, non per “lo sbaglio di un’ora”. Ecco perché a questo punto non capisco chi pensa che perdere sia un mancamento, un errore, un motivo per addormentarsi sui binari e arrendersi allo sfacelo mentre il fantasma di Attila fa pisciare i suoi robusti esattori sulle pianure più povere di una mancata Europa che brucia e torna sotto il dominio di chi è meglio armato di moneta sonante.
I mattoni del muro di Berlino furono numerati e venduti nelle migliori gallerie mentre mercanti e rassegne d’arte lasciano la romantica Parigi e puntano verso Francoforte, Kassel, Dusseldolf. La Germania inizia così a fare cassa mentre in Italia si dirà che con la cultura non si mangia, e allora, dipanare i filamenti della risorta economia tedesca non è poi così difficile visto che nella sua ballata il grande poeta Genovese ci ricorda che la sconfitta è solo “un discorso sospeso” e il tempo viene da lontano, si ferma e poi riparte.
Per quanto ci riguarda sembrano ancora accesi gli accordi economici tra lo zio di Attila e l’insolvente Impero Romano -160 kg d’oro ogni 12 mesi- ma forse per noi parlare di debiti è parlare di corda in casa degli impiccati, meglio digitare su You Tube il titolo di questa ballata e rincorrere il senso per ritrovare un autore che aveva capito a modo suo, ma aveva capito prima degli altri come si raccontano le storie del domani.
I funerali di Enrico Berlinguer
Documentario
Genere: Irreale
di Sauro Sardi
Le prime immagini si soffermano sullo sguardo serio di un bambino avvolto da una gigantesca bandiera rossa che lascia intravedere la scritta: P’CI Sez Cagliari. Il bambino avanza a tempo di musica battendo il passo dietro una fila di trombe e sassofoni che impegnano tutta l’ampiezza della strada, ad ogni rullo di tamburo il bambino guarda verso il maestro di Banda aspettando un suo cenno. Gavino è riccio o e minuto, ha attraversato il mare nella notte ma è ben sveglio e guarda avanti a sé dritto e fiero come se alla sua etàavesse già capito tutto.
Sfilano di lato gli uomini del servizio d’ordine, mentre ai bordi della strada si levano qua e là dei grappoli di pugni chiusi. La banda precede di poche decine di metri il feretro che avanza seguito dai famigliari, le autorità, , i compagni di Partito. Da Via Emanuele Filiberto il corteo sta per immettersi in Piazza San Giovanni,gremita fino all’inverosimile. Al passaggio degli elicotteri che sorvolano il fiume di bandiere listate a lutto si intravede lo sbattere delle ali che si alzano dalle piccionaie dei tetti più alti, il fermo-immmagine sul biancore di quelle ali genera un breve istante “di effetto mosso” che fa venire in mente le colombe di Ennio Calabria. Un fotogramma che vale un dieci.
La testa del corteo irrompe nella piazza come la goccia di una scia di sangue che spinge, si accaglia come aggrumata dall’urlo potente di un milione di cuori che battono un colpo solo, un nome solo: “Enrico!”.
Poi all’improvviso, come se la pellicola avesse preso a girare oltre lo sviluppo di una enorme puleggia analogica, impazzisce, sibila, va via, verso la proiezione digitale, il dominio integrato del silicio, verso la compressione del tempo che trasla l’immagine dal suo nastro di materia che scorre, mormora strani acuti di riavvolgimento. Eccola, ora la faccia di Lenin è chiara come la molecola dell’astratto: il sogno è già un reperto per l’ultimo mercatino dell’antiquariato. , E spunta vuota e buia, la bocca dell’ultima miniera sotto il Monte Sinni. Il Sulcis.
Gavino è grande, il suo passo sbriciola e bestemmia zolle di carbone, lo sguardo è ancora dritto e fiero ma dentro si vede l’orrido della discesa nel pozzo, la polvere nera che appanna il sole del cervello. Gavino guarda con disprezzo verso l’uomo che gli punta il faro della macchina da presa, ormai sono mesi che la miniera è occupata, sono stanchi. Si, anche i suoi compagni sono stanchi e le donne che aspettano fuori dai cancelli sono ombre affacciate dietro la sbarra che delimita l’ingresso alla miniera. Sfinite, si raccolgono intorno al fuoco di una carcassa di legno annerita dal calore. Intorno il colore è sempre quello del carbone.
Da anni: Trenta milioni di Tonnellate di carbone per ventimila minatori. Gavino ricorda ancora quel giorno, in piazza San Giovanni, se avesse allungato le mani poteva toccarli:
Pertini, Gorbaciov, Arafat. C’era anche il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese. Ma ora quel milione di pugni alzati sono dei cazzotti rivolti verso il cielo, le urla sono il furore delle donne che da mesi non vedono i mariti , i figli. E nemmeno uno schifo di stipendio si vede da mesi.
D’un tratto il fuoco dell’inquadratura sembra addolcirsi nel celeste orizzonte di quello che sembra un mare, si, è proprio il mare, lo scoglio di granito rosso, l’aria intorno è ricca, gli elementi che variano la gamma dei colori che appaiono nella fresca residenza estiva di chi guarda verso le calle del giardino curate senza badare a spese, la bandiera che sventola sul pennone del circolo più esclusivo spuntato come un fungo sui sassi della gallura è azzurra come tutto il resto del cielo. Oggi non c’è una nuvola, sulla Costa a Nord-Est della Sardegna. Le inquadrature ora sono meno radenti, più morbide. Lontano e malfermo il ricordo dei volti duri delle donne rischiarate dai falò sotto la miniera. Il cielo abbaglia, il cameriere gira in mezzo ai tavolini leggero e invisibile come un quadrato bianco su fondo bianco: il Suprematismo di Malevic al servizio dei nuovi Zar scampati alla Rivoluzione d’Ottobre. Il cameriere si muove come un pesce nell’acquario, Intanto l’operatore mette a fuoco e stringe sui bottoni dorati della sua giacca griffata dalle iniziali del Circolo. Sembra scocciato dalla presenza della camera da presa, si volta e mette distrattamente nel taschino qualcosa. Due signori si alzano dal tavolino e guardano indispettiti il Led lampeggiante della Telecamera, sfavati, pagano in dollari e salutano il cameriere in russo. Poi, si dirigono verso una mercedes parcheggiata sotto la macchia nera di un uomo sopra una sedia a rotelle e sgommano lasciando due strisce nere sotto il cartello dell’handicap. L’occhio molesto della telecamera li segue ma il Led ormai lampeggia sul rosso, la batteria agli ioni di litio è finita, il sogno è finito e tutto sembra mai nato,mai esistito veramente.
Forse nemmeno Berlinguer è mai esistito e Gavino non ha mai attraversato il mare di notte per finire dentro una bandiera rossa, mai. Almeno di questo sono sicuro:mai.
Di sauro.sardi@gmail.com
Cosa vuol dire “Avversario” (?) Il primo film che mi torna in mente è “Uomini contro”. Un carnaio di gente contro altra gente, sangue oltre il filo spinato e mine sepolte a fil di terra. Uomini che nemmeno si conoscevano tra loro venivano scaraventati sulla mappa che disegnava il piano d’attacco, la difesa, la ritirata. Strategie che penetravano vallate e deserti attraverso il valico audace delle alture o la rapida via delle gole che affluivano al centro dell’azione, dirompenti. Sulla carta dove sporgevano i profili dei monti si disponevano, orizzontali, i battaglioni allineati e paralleli al verso dei fiumi. Si poteva vedere, in scala, l’esigua dimensione delle truppe che si fronteggiavano rispetto a tutto il resto che restava armonioso, immobile. Piccoli rettangoli di legno che contenevano eroi, codardi e lettere dal fronte. Microscopiche ossature rivestite di carne mimetica, elmetto da alopecia e scarponi da calli plantari pronti a cambiare passo e postazione. Tutto questo non è archeologia, non è reperto o voce drammatica nel documentario. In troppi casi di legittima insoddisfazione, l’umore sul quotidiano della politica si avventa sulla scheda elettorale declamando più il disprezzo che non l’idea, e tutto si svolge senza sentire neanche lontanamente il bisogno di rinfrancare lo spirito nel semplice auditorio dei nostri resistenti o caparbi Circoli Culturali, o nell’impegno delle nostre Parrocchie più inclini all’azione che all’adorazione.
L’andamento dei flussi viene regolato da patacche espressive che raccolgono il consenso attraverso esperimenti di semiotica e posture molto simili a movenze militari. Una lotta tra soggetti armati di parole che rispetto alle “bombe intelligenti” conservano la stessa imprecisione e cadono sulle teste dei poveri rettangoli di legno che altro non possono fare oltre il disperdersi al centro, a destra, a sinistra. Poveri rettangoli di legno ormai senza più capelli tra ferro e cranio, e con le scarpe che a stento trattengono lo splendore acuto dei calli. Tutto questo sancisce l’idea di una mancata progressione del nostro genere di sostanza vivente, intelligente, rispetto al profilo perenne dei monti, il corso antico dei fiumi, le gole sotto l’orrido crepaccio o strapiombo del pendio. (sempre audace). Siamo ancora dei rettangoli di legno scagliati l’uno contro l’altro. In questo gioco dove schierarsi è quasi obbligatorio, le vittime più comuni sono proprio coloro che come sosteneva Gramsci, devono sentirsi “partigiani” e quindi stare da una parte o dall’altra.
Ma questo era il pensiero di un piccolo costruttore di barchette fatte con la carta di giornale, quando sembrava che la democrazia fosse composta da due materie che si contendevano il ruolo dominante, alternandosi nell’esercizio del potere e dell’opposizione. Ormai, lo schema difensivo di coloro che hanno regolarmente vinto o usurpato il Feudo, sembra spaginato da un carteggio medievale, sollevano il ponte levatoio e diventa inaccessibile lo scambio, il confronto. E’ un errore, alla lunga cede la linea di posizione rispetto a quella di movimento. La storia è chiara: vince l’assedio, e questo vale per battaglie vecchie e nuove. Stiamo tornando al tempo delle sassaiole tra amici e non ho più la mira, intanto il gioco della politica ferisce più delle sassate, raffredda i rapporti e tiene a distanza persone che non si sono mai conosciute veramente ma si sentono ostili. Forse stiamo diventando troppo seri o troppo buffi, e allora
che ci salvi almeno l’umiltà se abbiamo perso l’ironia, intanto io aspetto Django, e questa volta non sarà un diluvio di piombo ma ci salverà tutti, nessuno dovrà fingersi già morto. Django ha attraversato le sabbie rosse del deserto, ha ballato con lo stregone indiano e mangiato carne di serpente, sa fare il verso della Civetta e quello del Coyote. E sa fischiare come fischia il vento lungo della vita e il soffio breve della morte. Io aspetto Django.
Aylan è ancora tra la schiuma delle onde
Di Sauro Sardi
Una Galassia è composta da circa mille miliardi di stelle. Nell’Universo ci sono oltre cento miliardi di galassie, stella più, stella meno. Tra queste, la via Lattea è quell’ammasso di nebbie che potrebbe ricordare un particolare del Padule di Fucecchio visto da Magritte, oppure l’ora del Tè nella Baia di Ancorage. La nostra casa nello spazio è dentro una soluzione di vapore denso e bianco come il latte. E noi sappiamo bene che fu per via di quello spruzzo di latte negato, quel dispetto di Era nei confronti del piccolo Eracle, figlio illegittimo di Alcmena e Zeus. Il pargolo era il frutto di una furbata del Dio dell’Olimpo a danno dell’ignaro Anfitrione, marito di Alcmena e dunque, non solo reduce guerriero ma ariete che merita tutta la nostra solidarietà. Però, che gente.
Certe volte appaiono nel cielo delle brevi strisce luminescenti, funi, che sembrano attaccate al soffitto di un Dio che sta al piano di sopra, Un Dio più vecchio dello spazio cosmico e dei flussi di materia che spingono l’Universo oltre la teoria del presente, oltre l’andare e venire relativo. Per quanti volessero attaccarsi a quelle rapide corde che arrivano fino al suolo, sarà solo una questione di traiettoria e riflessi pronti, di tempo sereno e asciutto, di frammenti stellari resistenti all’attrito che li consuma via, via, che scendono. Attaccarsi alle funi del cielo è come trovare un lavoro, un barcone sicuro, un luogo dove le ragioni valgono più dei quattrini. La prossima notte di San Lorenzo date un’occhiata al cielo anche per chi non può, per chi ha viaggiato il mare di notte e di giorno resiste appeso a quella bava che ciondola dal palato della volta celeste. La notte di San Lorenzo non fu per tutti un bagliore di fuochi artificiali.
Dopo i campi di sterminio e Hiroshima ci fu chi non capì niente sulla dottrina dell’amore universale e sul Cristianesimo, fino a rimettere in dubbio il mare asciutto della luna e l’esistenza di un Dio misericordioso quanto distratto. Dopo Aylan Kurdi, il bambino Siriano fotografato “senza vita a faccia in giù tra la schiuma delle onde”, l’Europa mette in dubbio la sua esistenza e scopre la comunitaria e feroce dottrina dell’amore proprio, come il latte negato di Era, detta anche Giunone, la Dea dall’ enormi mammelle che preferì farsi scoppiare il petto prima di allattare un bambino che non era suo.
Ma forse siamo più figli di Ponzio Pilato che della distrazione di un Dio misericordioso, siamo tanti. Una stella riflette lo splendore della sua vita fino al bagliore accecante della sua morte, i frammenti arrivano fino a noi come funi del cielo o lacrime di Dio ancora accese fino a spengersi sulla spiaggia di Bodrum. Dove i bambini dormono a faccia in giù tra la schiuma delle onde.
Cari bambini.
Scrivere novelle è fantastico, ritrovo tutto quello che mi serve per abitare da gran signore nella cavità di un albero. Respiro in fondo al mare e bevo latte di balena nel mio sommergibile di cartone. Navigo dentro una scatola di sardine che mi ha costruito su misura un fabbro che vive in un vecchio autobus abbandonato. In cambio di una delle mie farfalle a motore, oltre alla scatola di sardine mi ha regalato un cane di latta e una gallina dalle uova infrangibili.
Certe volte i miei personaggi sono come le correnti marine e mi trasportano lontano, ma così lontano da casa che non riesco a tornare in tempo per la cena.
A proposito, sapete dirmi che ore sono?..
L’albero delle frittelle
L’albero delle frittelle ci riporta ad una diversa idea della vita, forse, l’unica che potrebbe avere un futuro nel mondo che ormai è fatto di popoli in movimento, uomini e donne che percorrono grandi distanze e affrontano culture e credenze lontane da loro. Il bambino che bussa alla porta dello gnomo, potrebbe non aver percorso il tratto breve di una storia fantastica ma, venire da molto più lontano, e poi, tutta quella fame, quel freddo, e la paura di mille ombre che si agitano intorno, forse, onde gigantesche: le ombre del bosco, le onde del mare.
Il paese delle farfalle a motore
“Topi parlanti, ranocchie col marsupio, canguri gracidanti, scarpiere per millepiedi,ombrelli per quando tira vento ma non piove.
E dunque, come abbiamo detto, quel giorno pioveva e pioveva, una delle farfalle, la più grande di tutte, era atterrata proprio davanti alla cuccia del cane, proprio lui, il nostro Cispino a quattro zampe. ebbene, per un cane abituato alle stranezze che giravano intorno casa, quello dovette sembrare un invito, una specie di sfida: “ Vuoi salire?” e fu così che un cane volò in groppa ad una farfalla…”
La pietra parlante
La vocina si fece sentire di nuovo:
“Sono proprio sotto il tuo piede, se lo sposti potrei respirare un po’ meglio.”
Ferrino non credeva alle sue orecchie, ma quella voce veniva da sotto le sue scarpe. Alzò quella che lo aveva fatto inciampare e vide sbucare il bordo tagliente di una pietra color acqua di mare.
“Non mi dire che sono inciampato in una pietra magica.”…
La notte di San Lorenzo
“E così mi ha lasciata cadere ai piedi di uno spaventapasseri.”
Certo, in quel paese tutti avevano qualcosa di più e non qualcosa di meno del necessario, l’unico che non aveva proprio niente era il povero spaventapasseri vestito alla meglio con la giacca, i calzoni, e il cappello del nonno di Angelina.
Il sole dei folletti
“dobbiamo costruire un sole tutto nostro, che scaldi e illumini il bosco.”
A quella proposta tutti i folletti e tutte le creature del bosco riunite risposero in coro:
“Un sole tutto nostro costruito con le nostre mani.”
“E con le nostre zampe!” disse una marmotta portandosi la zampa alla bocca per coprire uno sbadiglio
Lasagna il Re della montagna
“E cosa dovrebbe mai essere, un leone?”
Certo che a guardarlo bene, per essere un gatto era troppo grosso, e per essere un leone era troppo piccolo.
“ E se fosse un cucciolo di leone?”
La nonna lo guardò strizzando gli occhi come per attizzare la vista.
“Per me è un gatto, se fosse un leone ci avrebbe già mangiati.”
Ninetta la cavalletta
“Cosa è successo?”
“Oh, buon giorno signora maestra, stanno parlando di una bambina che è finita sotto il treno a scarpe in mano.”
“No, no, due bambine hanno buttato le loro scarpe sotto il treno…”
“Pare che il treno sia uscito dai binari!” disse il giornalaio. A quel punto la maestra chiese se qualcuno sapeva veramente come erano andate le cose e che aspetto avesse l’una o l’altra bambina.
“Il postino ha visto tutto.” dissero in coro il giornalaio e l’arrotino mentre alcuni passanti stavano parlando di tre bambine che avevano tirato le loro scarpe in testa al macchinista che, stordito, aveva fatto uscire il treno dai binari. La maestra tirò da una parte il postino e dopo aver sentito di una bambina che aveva saltato i cancelli a scarpe in mano esclamò:
“È lei… Ninetta!”
L’isola delle zucche
…si doveva aspettare la bassa marea. Passando nei punti giusti l’acqua arrivava appena alla caviglia.
“Forse quelle monete e quella perla appartenevano a qualche pirata.” Disse Martina tirando per la veste Suor Lucilla perché gli rispondesse.
“Domani andremo a vedere, se non troveremo un tesoro raccoglieremo qualche fiore di zucca.”
“
Sauro Sardi Via Gioberti n. 65 Agliana (PT)
cap. 51031 Tel. \0574 711812 – Cel.338 1143877
sauro.sardi@gmail.com
LIBRI E MANOSCRITTI
Sauro Sardi (Valentino)
Ha pubblicato per “Il Grandevetro – Jaca Book:
“Una borsetta di pitone Arancione” 2000
“La merenda cinese” 2001.
“Il giardino d’amianto” 2005
MANOSCRITTI INEDITI
PORTAMI DAVANTI AL MARE
Romanzo di Ferio
L’occasione
Il morso del lupo
Al tempo dei Tedeschi
Lo sbattere sui tasti dell’ormai estinta “Olivetti lettera 32” mi portava alla mente i passi dei Caminantes di Machado: “Caminante no hay camino” Pensavo che scrivere storie fosse più o meno come il camminare senza avere già in mente una direzione. “La strada si fa camminando” e allora poteva nascere colpo su colpo il paesaggio e tutto il resto. Dare la vita a figure e luoghi immaginari era come seguire quelle orme. E invece no, scrivere non è come camminare sulle onde del mare, no, quando crediamo di dare la vita a qualcosa che non esisteva fino a qualche istante prima, non facciamo altro che aggiornare gli appunti che avevamo già in mente. Una semplice operazione di archeologia, frughiamo tra le cose che avevamo messo da parte. “Todo pasa y todo queda”. Tutto passa e tutto rimane. Si nasce e si muore in quel viaggiare all’indietro, e via, via, sotto i temporali, o buttati fuori di casa dalla piena del torrente,fino a trovarsi davanti al mare, a respirare l’aria che porta via la tosse. Ero io quel bambino che tossiva accanto a una medusa morta da tre giorni.
Ero rimasto immobile nel punto dove le onde arrivano strisciando a malapena. Fermo, scarpe calzini ai piedi come se aspettassi il momento buono per attraversare il traffico di quelle bolle di schiuma che friggevano e penetravano la sabbia. Pensai alla strada che da Pistoia andava fino a Prato e mi salì al naso l’odore di quelle calde macchie di catrame dove i miei sandali erano rimasti appiccicati più di una volta. La Via Provinciale passava davanti alla porta di casa mia come se fosse il corridoio della stanza accanto.
Intanto mi chiedevo quanto fosse profonda e lontana la curva dove la nave spariva all’improvviso, mentre quella striscia d’acqua dal colore mosso come una spremuta di cozze mi stava camminando sotto i piedi facendoli affondare piano, piano fino agli stinchi. Quando cercai di liberarmi da quella morsa di sabbia collosa pensai che anche il mare aveva lo stesso vizio del catrame.
Negli anni a seguire ci si misero anche i temporali a raccontare storie di scarpe asciutte, puttane, e tartarughe marine. All’inizio ero già stanco, e mi fermai sulla mia solita panchina, dentro a quattro storie che avevano in comune il mare,i temporali, l’amore, la morte.
ROMANZO DI FERIO
Il torrente racconta la storia di un ragazzo dal buffo naso di gomma.
Ferio non riuscirà ad annegare e nemmeno a togliere quella mano dal viso quando parla. Lo salverà Apice, uno strano viaggiatore dalle scarpe asciutte. Insieme ritroveranno Emily, in quel segreto alla curva dell’Agnaccino.”
“LOCCASIONE”
…Non potevo immaginare che fin dal primo istante che mi aveva visto entrare, avesse pensato a me come all’occasione che stava cercando.
Il destino a volte ti si avvolge addosso come una sciarpa e non sai, non capisci se ti vuole scaldare o ti vuole strozzare.
Il morso del lupo
Una storia di periferie percorse dalla mola di un arrotino.
Esausto, alla fine, troverà rifugio sul fianco di una montagna di rifiuti urbani. In quell’avanzo di cose sommerse, Margherita, sarà lo scampolo di un miracolo finito negli stracci. A Prato, finire negli stracci e risorgere fu tutto un lavorare.
AL TEMPO DEI TEDESCHI
“…A parte una gondola fatta con le conchiglie di mare, non avevo giocattoli che mi portassero lontano. Il gioco della morte è stato il primo svago della mia vita. Il mio divertimento.
Potevo restare per più di un minuto senza respirare. Non un battito delle ciglia, una mossa. I primi tempi si spaventavano tutti. Fino a quando, ormai ero risuscitato non so più nemmeno io, quante volte. Le mie esecuzioni, per essere credibili, dovevano superarsi. Sempre più vere, al limite. Oltre il limite. Solo quando non sentivo più il cuore e tutti mi imploravano. Solo allora mi riaccendevo.
Volli morire anche il giorno della mia prima comunione. Non avrei dovuto farlo, ma c’era il pubblico delle grandi occasioni, gente nuova.
Svenne anche la bella moglie di un mio vicino di casa. Era venuta a bere un bicchierino.
Mi credé realmente morto, dopo avermi scosso e baciato più volte, inutilmente, per rimettermi al mondo. In quell’odore di lacrime e marsala, sulle mie gote violacee. Cadde come un maggiolino sotto i lampioni e tutti gli videro le gambe fino alle mutande. Bella, bella davvero. Da quel giorno i suoi capelli imbiancarono con la rapidità del baleno. L’ho detto:
Non avrei dovuto farlo.
A lungo, replicai a mio piacere quel numero. La gioia di risuscitare pagava assai più di una morte improvvisa”…
Domenica 28 Giugno 2015
Fa un gran caldo, forse sarà meglio spegnere le valvole del Klimt Echolet prima che l’odore della polvere annidiata sui trasformatori si mescoli a quello delle susine abbattute dalla grandinata di ieri sera. Erano quasi mature, che peccato sentirle affondare sotto i piedi. Il suono delle valvole è sempre stato una centrifuga di nostalgie ma il calore degli anni 60 si apprezza meglio in inverno.
Mentre annuso l’aria che entra dalla finestra mi metto a pensare, e come sempre, una cosa che ti viene in mente si potrebbe anche scrivere.
Per quanti amassero ben altri generi musicali, non saprei dire quanto sarebbe noioso per loro, se mi mettessi a parlare di musica sperimentale, di avanguardie, descrivendo le varie fasi del suono e dei vecchi e nuovi Sintetizzatori. E allora, nel caso che quanto scrivo venisse letto solo per errore o per curiosità, sarà bene proseguire semplificando i concetti in ordinaria esperienza di vita, così come l’abbiamo vissuta con i pochi o tanti mezzi che avevamo a disposizione. Da sempre, la mia “stanza dei suoni e dei rumori” era un ricovero per gloriosi sintetizzatori ormai sprofondati in una fascia di prezzo che, a quel punto, potevo sostenere. Una lotta tra il nuovo, il vecchio, , e l’economico.
Senza tirare troppo di fino e guadagnare tempo potrei dire che realizzare e memorizzare un suono è complicato, ma al tempo dei primi sintetizzatori monofonici con memoria volatile era anche peggio. Tra le apparecchiature che mi sono morte tra le mani, ricordo ancora un tragico PPG Wave con tutti i dati relativi alla Library interna precariamente registrati su nastro magnetico, un “Cinematografico” Emulator II che si avviava solo dopo avergli dato un pugno sullo scatolotto dei due enormi Hard Disk, (parzialmente visibile nella foto “Prova di elementi sonori”) e un vetusto Oberheim con una immane quantità di manopole e deviatori sottolineati da una serigrafia che “raccontava” storie di oscillatori e algoritmi. Ma il più stramazzante ordigno monofonico fu un sintetizzatore a 49 tasti che mi feci costruire da un vecchio ingegnere Pistoiese: una vera bomba a sonagli. Sulle alte frequenze soffiava come una vipera incrociata con un merlo indiano. Prese fuoco alle prime luci del mattino, dopo essere rimasto accidentalmente acceso tutta la notte.
In ogni caso, la mia smania di ricerca era partita da una immagine di Otto Luening e Vladimir ussachevskj ritratti mentre mettevano le mani dentro una fila di non identificabili apparecchiature elettroniche stipate l’una su l’altra dentro una gigantesca intelaiatura metallica formato rack. Bei tempi, oggi non potrei fare a meno della voce del mio Computer per entrare e uscire dai parametri di un suono, naturalmente, operando ancora in modo prevalentemente analogico: manopole, deviatori, microfoni,e… pugni sull’Hard Disk. Certe memorie magnetiche perdono peso e dimensioni ma non il vizio.
Ormai conosco a memoria le possibilità e le insidie degli strumenti che uso. Per estrarre suoni e non marmellate digitali si deve lavorare senza pensare tropo agli anni che, intanto, vanno via. Ma forse per oggi ho già pensato abbastanza, anzi, a proposito di marmellate digitali, ecco cosa potrei fare con tutte quelle susine. Alla faccia della grandine.
Audio in Garage: Sauro Sardi “Premiata macchina della grandine” (2015)
Il concetto di armonia.
Gran parte della pratica musicale deriva da questo concetto, cioè quello di armonizzare suoni diversi regolandone la frequenza, e al tempo stesso il colore, cioè la scelta di uno strumento. Questo vale anche per la voce, si capisce, si armonizza l’emissione dell’aria variando la strozzatura della gola come si cambia la lunghezza del canneggio di un flauto ostruendo o liberando uno o più fori. Se i concetti servono a dimostrare l’efficacia delle idee solo immaginandone la forma, sarebbe giusto pensare al suono rossastro, calante, del tramonto. Difficile? Forse per il tramonto, ma per il suono caldo di un piatto di minestra in pieno inverno basta chiedere a chi frequenta le mense dei poveri e di notte dorme dentro una scatola di cartone. Ecco il suono che racconta il rumore delle cose: il fracasso della vita.
Musica concreta, così fu chiamata la registrazione di quel treno che Pierre Scaeffer incise sul nastro di uno dei primi registratori a bobine. Era i 1948. Non fu solo rumore di rotaie, era il primo passo verso l’insieme di momenti e lontananze che sopraggiungono., o più semplicemente, materiali che per attrito emettono le loro densità primordiali. Ferro, legno, acqua, argilla. Il ritmo potrebbe essere quello di chi lavora e suda, il suono potrebbe essere immagine. Proiezione acustica, o se vogliamo nasconderci dietro il tendaggio di Pitagora, “Musica Acusmatica”. Musica da teatro? Partiture per pochi scenografi comunisti? No, il Comunismo colto e raffinato di Malevich e Majakovskij era già un reperto 400 anni prima di Cristo, e ormai è solo un paragone tra ciò che siamo e ciò che potevamo essere duemila anni fa, ma scegliemmo Barabba. E ancora si attinge a quell’idea per iniettare sostanza alle nostre fantasie, si sogna da marinai ma siamo degli onesti mozzi di città.
Il rumore della fame è quando la pancia parla un linguaggio incomprensibile? Troppo facile. Certe volte il rumore della fame ti arriva dallo scatto di un fotografo, uno di quelli bravi, uno che sa cogliere quel rumore negli occhi di chi si mette in posa per un pezzo di pane.
Diversamente da ogni linguaggio verticale,il formato di musica concreta vuole essere pari al genere elementare, basta seguire il verso delle emozioni. Musica come indirizzo ideale? Sarebbe tra le forme espressive più comuni. Appunto, semplificare è una delle prerogative di chi vuole essere avanguardia, innovatore. Del resto, Più che mai, nella Musica Concreta, è sempre una questione di posizionamento ideale di fronte all’elemento astratto, e sempre, è una questione di esperienze più che di cultura convenzionale. Il compositore sarà più esatto quanto più sarà comprensibile il suo posizionamento di fronte allo scorrere delle materie che faranno parte del tema. Ecco perché scegliere il timbro rugginoso di uno strumento ad ancia invece del suono dolciastro di un flauto diventa una questione politica. Posizionarsi nella strategia dei suoni riflette sempre un pensiero, una dottrina. Per i più allenati, si può dire che cercare il Comunismo nell’opera compositiva di Luigi Nono può essere facile come cercare la voce dell’Idrogeno dentro un secchio d’acqua: basta avere orecchio e sentirsi acciaio,fiamma e sudore dentro la “Fabbrica illuminata”. Il mio concetto di armonia vorrebbe esprimere l’azione politica di un pensiero che riproduce il nostro agire da compositori di attività quotidiane. Il risultato dipenderà da due fattori, il materiale umano di chi produce il suono, il materiale umano di chi ascolta il suono.
Audio in Garage: Sauro Sardi Fantasmi a Murano (2015)
Ma che musica è?
Questo si sarà chiesto più di una volta il mio pubblico di zanzare. “Ma che roba è questo ragliare di gatti in amore?..” si chiedevano quelle piccole sanguisughe volanti,tra un morso e l’altro, mentre tentavano di dissanguarmi o almeno di farmi smettere il pestaggio di quella fila di tasti bianchi e neri. A volte il ronzio di quelle minuscole Lambrette alate si faceva sentire insieme alle spurie di certi campionamenti leggermente in ritardo rispetto al punto di attacco, o come direbbe il tecnico del suono: “questo silenzio è sporco”.
Ronzavano e mi giravano intorno al collo dandosi il cambio, strategiche, come nelle migliori azioni di movimento rispetto alla mia solita postazione. Una lotta tra poveri, sono sempre stato anemico.
Ci vuole orecchio, tutto il resto deforma il concetto di musica concreta, la contaminazione melodica è sempre in agguato, leziosa e persuasiva come un vizio. Del resto siamo stati educati a rincorrere l’armonia per raccontare il mare, l’amore, la morte. E questo non è un “genere espressivo” ma un limite. Penso questo ogni volta che affronto lo scorrere di un suono senza peso, senza forma acuta o morbida, senza una sua natura che lo renda solido o liquido, oppure vuoto, frammento. Il suono è lì, scorre, appena nato e già impaurito all’idea di soccombere travolto da un secondo inviluppo, un nuovo attrito più corrispondente al senso che si fa largo tra una folla di armonici. Bello, o forse no, non ancora maturo, troppo curvo, troppo basso. Stasera cerco un soffio uguale al vento dei canneti, un vento che scivola sui vetri come una processione di lumache, lento e muto come i passare dell’acqua dentro ai lavatoi.
Per dire che tutto ciò che cerchiamo è già nella nostra memoria, e già esperienza, cerco un suono che copra le distanze tra le dinamiche percussive di E. Varese e e il respiro magnetico dell’Hammond in “dona che te durmidvet” di Jannacci. Due sostanze di musica e parole che affrontano il mare dell’ignoranza come chi attraversa le onde di notte, inseguito dai pericoli del nostro tempo, o semplicemente resiste, accerchiato da un possente esercito di zanzare.
Ci vuole orecchio, alla fine lo dirà anche Maderna, (estratto da una rara video-sequenza) quando ancora vivo e solenne come fosse davanti a una fila di oscillatori dentro lo Studio di Fonologia della RAI, impartisce la sua travolgente lezione. “dovete improvvisare da voi, senza note… a casaccio, il suono interrotto il più possibile… no, non così… più violenti e cattivi”. Grandioso. Per fare musica ci vuole una buona scuola, un buon maestro, ma se non vogliamo buttare via tempo e soldi, dobbiamo prendere sul serio l’ironia di Jannacci, strabiliante, indimenticabile artista Milanese che aveva studiato per fare il medico e intanto cantava per passione: Ci vuole orecchio.
“Ma questo lo capiscono meglio i bambini”. Appunto, è una questione di educazione, e la scuola che ho conosciuto prendeva a fucilate il Tamburino Sardo, piegato all’obbedienza, eroico. E ogni volta la rana che avevo in tasca urlava: “…scappa Tamburino! Non salire sull’albero…ti ammazzano!”. In quella Scuola dell’obbedienza, con i suoi traumi Biblici e aritmetici. La parentesi graffa era una tagliola, I Sumeri mi aspettavano dietro la lavagna, in castigo. Si, forse furono i Sumeri a scatenare in me la voglia di cercare in libertà una nuova materia, un luogo dove avrei letto, finalmente a voce alta, il mio svolgimento: “Tema indisciplinato sui rinnovamenti della Perfetta Imperfezione”.
Audio in Garage: Sauro Sardi: “4Passi per 12 zanzare” (2015)
Affermare che la sinistra e la destra ormai non hanno più alcun senso per continuare a esistere, è come togliere la copertina a due libri diversi, ma i contenuti restano.
Sbilanciando al ribasso il ruolo delle parti estreme si arriverebbe ben presto a una sorta di regimazione democratica, un mostro che ti punta addosso i suo unico occhio fisso. La sinistra e la destra sono due strumenti fondamentali per equilibrare e ottimizzare l’immagine di una democrazia presente, appunto, attraverso il quadro storico.
Possiamo essere d’accordo nel dire che non esiste l’individuo fisiologicamente di destra o di sinistra, semmai, ognuno agisce riproducendo i due schemi idealmente opposti con somiglianze comportamentali, talvolta, agghiaccianti. Anche questo è facile da individuare in ognuno di noi.
Sia la destra che la sinistra hanno ormai varcato le vecchie prospettive ideologiche e può essere liberatorio il confronto. Ecco perché, parlare oggi di Fascismo e Comunismo significa rifiutare quell’idea bigotta e confessionale che malvolentieri parla di sesso e di politica. Più che un uomo di sinistra mi ritengo un uomo libero, finalmente. (come ho cercato di accennare –e se non sono stato chiaro me ne scuso-
in un recente incontro svoltosi a Agliana alla CAFFETTERIA DEGLI ARTISTI” La politica è materia che appassiona lo studioso, il ricercatore, attualizza il dibattito sull’arte contemporanea nello spunto che indaga le forme come reperto dimostrativo, utile per definire l’ingerenza del potere politico nell’arte, nel costume. Un bravo architetto sa riconoscere un edificio “suggerito” da una visione più politica che artistica. E in questo, l’ingerenza dei regimi di ogni genere è ben descritta. (Futurismo e Realismo Socialista) Solo quando non avremo più paura di confrontare apertamente le nostre esperienze, solo allora, potremo dire che non siamo qui per essere di destra o di sinistra, ma per imparare a leggere e scrivere una nuova storia.