Ma che musica è?
Questo si sarà chiesto più di una volta il mio pubblico di zanzare. “Ma che roba è questo ragliare di gatti in amore?..” si chiedevano quelle piccole sanguisughe volanti,tra un morso e l’altro, mentre tentavano di dissanguarmi o almeno di farmi smettere il pestaggio di quella fila di tasti bianchi e neri. A volte il ronzio di quelle minuscole Lambrette alate si faceva sentire insieme alle spurie di certi campionamenti leggermente in ritardo rispetto al punto di attacco, o come direbbe il tecnico del suono: “questo silenzio è sporco”.
Ronzavano e mi giravano intorno al collo dandosi il cambio, strategiche, come nelle migliori azioni di movimento rispetto alla mia solita postazione. Una lotta tra poveri, sono sempre stato anemico.
Ci vuole orecchio, tutto il resto deforma il concetto di musica concreta, la contaminazione melodica è sempre in agguato, leziosa e persuasiva come un vizio. Del resto siamo stati educati a rincorrere l’armonia per raccontare il mare, l’amore, la morte. E questo non è un “genere espressivo” ma un limite. Penso questo ogni volta che affronto lo scorrere di un suono senza peso, senza forma acuta o morbida, senza una sua natura che lo renda solido o liquido, oppure vuoto, frammento. Il suono è lì, scorre, appena nato e già impaurito all’idea di soccombere travolto da un secondo inviluppo, un nuovo attrito più corrispondente al senso che si fa largo tra una folla di armonici. Bello, o forse no, non ancora maturo, troppo curvo, troppo basso. Stasera cerco un soffio uguale al vento dei canneti, un vento che scivola sui vetri come una processione di lumache, lento e muto come i passare dell’acqua dentro ai lavatoi.
Per dire che tutto ciò che cerchiamo è già nella nostra memoria, e già esperienza, cerco un suono che copra le distanze tra le dinamiche percussive di E. Varese e e il respiro magnetico dell’Hammond in “dona che te durmidvet” di Jannacci. Due sostanze di musica e parole che affrontano il mare dell’ignoranza come chi attraversa le onde di notte, inseguito dai pericoli del nostro tempo, o semplicemente resiste, accerchiato da un possente esercito di zanzare.
Ci vuole orecchio, alla fine lo dirà anche Maderna, (estratto da una rara video-sequenza) quando ancora vivo e solenne come fosse davanti a una fila di oscillatori dentro lo Studio di Fonologia della RAI, impartisce la sua travolgente lezione. “dovete improvvisare da voi, senza note… a casaccio, il suono interrotto il più possibile… no, non così… più violenti e cattivi”. Grandioso. Per fare musica ci vuole una buona scuola, un buon maestro, ma se non vogliamo buttare via tempo e soldi, dobbiamo prendere sul serio l’ironia di Jannacci, strabiliante, indimenticabile artista Milanese che aveva studiato per fare il medico e intanto cantava per passione: Ci vuole orecchio.
“Ma questo lo capiscono meglio i bambini”. Appunto, è una questione di educazione, e la scuola che ho conosciuto prendeva a fucilate il Tamburino Sardo, piegato all’obbedienza, eroico. E ogni volta la rana che avevo in tasca urlava: “…scappa Tamburino! Non salire sull’albero…ti ammazzano!”. In quella Scuola dell’obbedienza, con i suoi traumi Biblici e aritmetici. La parentesi graffa era una tagliola, I Sumeri mi aspettavano dietro la lavagna, in castigo. Si, forse furono i Sumeri a scatenare in me la voglia di cercare in libertà una nuova materia, un luogo dove avrei letto, finalmente a voce alta, il mio svolgimento: “Tema indisciplinato sui rinnovamenti della Perfetta Imperfezione”.
Audio in Garage: Sauro Sardi: “4Passi per 12 zanzare” (2015)