I Funerali di Enrico Berlinguer

I funerali di Enrico Berlinguer

Documentario

Genere: Irreale

di Sauro Sardi

Le prime immagini si soffermano sullo sguardo serio di un bambino avvolto da una gigantesca bandiera rossa che lascia intravedere la scritta: P’CI Sez Cagliari. Il bambino avanza a tempo di musica battendo il passo dietro una fila di trombe e sassofoni che impegnano tutta l’ampiezza della strada, ad ogni rullo di tamburo il bambino guarda verso il maestro di Banda aspettando un suo cenno. Gavino è riccio o e minuto, ha attraversato il mare nella notte ma è ben sveglio e guarda avanti a sé dritto e fiero come se alla sua etàavesse già capito tutto.

Sfilano di lato gli uomini del servizio d’ordine, mentre ai bordi della strada si levano qua e là dei grappoli di pugni chiusi. La banda precede di poche decine di metri il feretro che avanza seguito dai famigliari, le autorità, , i compagni di Partito. Da Via Emanuele Filiberto il corteo sta per immettersi in Piazza San Giovanni,gremita fino all’inverosimile. Al passaggio degli elicotteri che sorvolano il fiume di bandiere listate a lutto si intravede lo sbattere delle ali che si alzano dalle piccionaie dei tetti più alti, il fermo-immmagine sul biancore di quelle ali genera un breve istante “di effetto mosso” che fa venire in mente le colombe di Ennio Calabria. Un fotogramma che vale un dieci.

La testa del corteo irrompe nella piazza come la goccia di una scia di sangue che spinge, si accaglia come aggrumata dall’urlo potente di un milione di cuori che battono un colpo solo, un nome solo: “Enrico!”.

Poi all’improvviso, come se la pellicola avesse preso a girare oltre lo sviluppo di una enorme puleggia analogica, impazzisce, sibila, va via, verso la proiezione digitale, il dominio integrato del silicio, verso la compressione del tempo che trasla l’immagine dal suo nastro di materia che scorre, mormora strani acuti di riavvolgimento. Eccola, ora la faccia di Lenin è chiara come la molecola dell’astratto: il sogno è già un reperto per l’ultimo mercatino dell’antiquariato. , E spunta vuota e buia, la bocca dell’ultima miniera sotto il Monte Sinni. Il Sulcis.

Gavino è grande, il suo passo sbriciola e bestemmia zolle di carbone, lo sguardo è ancora dritto e fiero ma dentro si vede l’orrido della discesa nel pozzo, la polvere nera che appanna il sole del cervello. Gavino guarda con disprezzo verso l’uomo che gli punta il faro della macchina da presa, ormai sono mesi che la miniera è occupata, sono stanchi. Si, anche i suoi compagni sono stanchi e le donne che aspettano fuori dai  cancelli sono ombre affacciate dietro la sbarra che delimita l’ingresso alla miniera. Sfinite, si raccolgono intorno al fuoco di una carcassa di legno annerita dal calore. Intorno il colore è sempre quello del carbone.

Da anni: Trenta milioni di Tonnellate di carbone per ventimila minatori. Gavino ricorda ancora quel giorno, in piazza San Giovanni, se avesse allungato le mani poteva toccarli:

Pertini, Gorbaciov,  Arafat. C’era anche il primo ministro della Repubblica Popolare Cinese. Ma ora quel milione di pugni alzati sono dei cazzotti rivolti verso il cielo, le urla sono il furore delle donne che da mesi non vedono i mariti , i figli. E nemmeno uno schifo di stipendio si vede da mesi.

D’un tratto il fuoco dell’inquadratura sembra addolcirsi nel celeste orizzonte di quello che sembra un mare, si, è proprio il mare, lo scoglio di granito rosso, l’aria intorno è ricca, gli elementi che variano la gamma dei colori che appaiono nella fresca residenza estiva di chi guarda verso le calle del giardino curate senza badare a spese, la bandiera che sventola sul pennone del circolo più esclusivo spuntato come un fungo sui sassi della gallura è azzurra come tutto il resto del cielo. Oggi non c’è una nuvola, sulla Costa a Nord-Est della Sardegna. Le inquadrature ora sono meno radenti, più morbide. Lontano e malfermo il ricordo dei volti duri delle donne rischiarate dai falò sotto la miniera. Il cielo abbaglia, il cameriere gira in mezzo ai tavolini leggero e invisibile come un quadrato bianco su fondo bianco: il Suprematismo di Malevic al servizio dei nuovi Zar scampati alla Rivoluzione d’Ottobre. Il cameriere si muove come un pesce nell’acquario, Intanto l’operatore mette a fuoco e stringe sui bottoni dorati della sua giacca griffata dalle iniziali del Circolo. Sembra scocciato dalla presenza della camera da presa, si volta e mette distrattamente nel taschino qualcosa. Due signori si alzano dal tavolino e guardano indispettiti il Led lampeggiante della Telecamera, sfavati, pagano in dollari e salutano il cameriere in russo. Poi, si dirigono verso una mercedes parcheggiata sotto la macchia nera di un uomo sopra una sedia a rotelle e sgommano lasciando due strisce nere sotto il cartello dell’handicap. L’occhio molesto della telecamera li segue ma il Led ormai lampeggia sul rosso, la batteria agli ioni di litio è finita, il sogno è finito e tutto sembra mai nato,mai esistito veramente.

Forse nemmeno Berlinguer è mai esistito e Gavino non ha mai attraversato il mare di notte per finire dentro una bandiera rossa, mai. Almeno di questo sono sicuro:mai.

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